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Giugno 2006
La Tecnica della Bolognese
Marco Abate da Messina
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Come primo articolo nella presente sezione non poteva sicuramente mancare la descrizione della tecnica italiana per eccellenza, conosciuta e praticata da tutti con il nome di bolognese.
La tecnica della bolognese è nata all’incirca negli anni 60/70 e veniva praticata solo nelle acque interne, il principale materiale di costruzione per le canne era il “conolon" quindi grossezze dei calci esasperate e pesi a dir poco terrificanti. Il cambiamento radicale e l’inizio dell’evoluzione tecnologica avvenne verso gli anni 80, quando comparvero le prime canne in fibra di carbonio, quindi misure e pesi ridotti anche del 50%. Dagli anni 80 ad oggi il materiale di “base” è rimasto il carbonio ma lavorato insieme ad altri, ottenendo sicuramente massima durata nel tempo, pesi molto contenuti e rigidità dell’insieme.
La tecnica della bolognese ha fatto la sua comparsa in mare solo verso gli anni 90, come è accaduto per molte altre tecniche delle acque interne è stata introdotta e praticata con successo da molte persone, ciò logicamente ha sfatato il mito delle lenze grosse e delle canne esasperate che in passato (si parla di molti anni fa) era caratteristico delle acque salate.
Oggi finalmente possiamo dire che tutte le aziende leader del settore hanno diverse modalità di costruzione che soddisfano una fascia molto ampia d’utenza, dal neofita, al garista o pescatore più esigente, a tal riguardo vi elenco le tecnologie di costruzione o le diciture che appaiono nelle canne top di serie delle case più conosciute nel campo delle bolognesi: Daiwa: TRC (Titanium Reinforced Carbon), Amorphous (lavorazione del carbonio nata circa negli anni 93 con le “AW”) – Maver: Sun Core (modalità di lavorazione del carbonio), Reglass (azienda che disegna gli stampi e i lay-out delle canne) – Mitchell: JK (carbonio alto modulo a struttura radiale), CSW (nuova tecnologia di lavorazione) – Shimano (prima azienda ad usare il biofibre): Beast Master (fi ne crystal), Bio-Fibre (tecnica di costruzione) - Tubertini: HM55-46, M36 (modalità di costruzione del carbonio).
Dopo questo excursus storico e tecnico vado subito al dunque, la tecnica della bolognese si è molto raffinata, è sempre in continua evoluzione ed è indirizzata a quasi tutte le specie ittiche presenti nei nostri mari. Sicuramente la comprensione di questa tecnica, soprattutto se indirizzata ad alcune specie ittiche (come Spigola, Sarago, Orata…), non è delle più facili (ma tranquillizzatevi vi sono delle “operazioni base” ripetitive e di facile apprensione) e per un corretto impiego occorrono molte ore di pesca. Gli elementi principali da tenere sempre in considerazione prima di iniziare a pescare in un luogo soprattutto nuovo sono: la scelta del galleggiante (in commercio vi sono anche troppi modelli) che si adatti al meglio alla condizione marina che troviamo; la costruzione delle stesine; la scelta della piombatura che non sarà mai uguale ma solitamente si adottano degli standard di base ai quali vanno apportate delle modifiche in base alle esigenze e all’esperienza maturata; i terminali e gli ami adatti al tipo di esca utilizzata; in ultimo ma non da trascurare il filo in bobina, per ogni punto cercherò di darvi delle specifiche di base che approfondirò in articoli futuri.
I galleggianti, come accennato, sono una scelta basilare per la riuscita della battuta, inizierò con la nomenclatura più usata: “tarare”, ovvero regolare con l’ausilio di piombo la navigabilità del galleggiante; “starare”, ossia il contrario di tarare, ma può anche essere utilizzato per evidenziare un tipo di abboccata nella quale avviene che il galleggiante si solleva (spesso anche impercettibile) invece del classico affondamento. Molto sinteticamente la struttura del galleggiante dal basso verso l’alto è formata in primis dalla deriva che può essere più o meno lunga, solitamente più è lunga più il galleggiante ha stabilità in acqua; dal corpo (o balsa) che dà la “forma” e la navigabilità al galleggiante, le forme più comuni e da conoscere per incominciare a pescare sono a penna, a pera o goccia (più o meno affusolata), a pera o goccia rovesciata (più o meno affusolata), a sfera (più o meno accentuata), in linea di massima più è affusolato meglio si adatta al mare piatto e viceversa; l’occhiello o anello scorrifilo, ha la solo utilità di passare il filo del trave; l’astina di visualizzazione o antenna, la quale può essere più meno lunga, solitamente con mare piatto la lunghezza favorisce una maggiore taratura del galleggiante con il conseguente miglioramento della sensibilità delle mangiate, con presenza di vento si dovrà adottare un’astina corta, in quanto non produce molto attrito e quindi il galleggiante non tende a piegarsi.
La costruzione delle stesine e la scelta della piombatura sicuramente sono accorpabili, in quanto la piombatura è sicuramente il 50% della costruzione stesina (per intenderci la stesina è tutta la montatura, galleggiante, piombo ecc…), la restante percentuale si divide nel galleggiante e nei microgancetti (che possono essere utilizzati o meno), la piombatura solitamente prevede pallini spaccati e torpille, le basi sulle quali lavorare si dividono in 3, cioè mare calmo, mare mosso e in corrente. La prima sicuramente è la più facile ma anche la più complicata infatti è strutturata dai soli pallini dislocati sul trave a scalare (con misura crescente o decrescente dal terminale) ovvero a distanze non uguali tra loro, oppure a distanza uguale; la seconda con mare agitato, prevede anch’essa l’uso dei soli pallini spaccati e raramente a scalare (dipende dal moto ondoso), si usano solo i pallini per un motivo di stazionamento del galleggiante ai passaggi delle onde, in quanto lo stesso con l’utilizzo di torpille o bulk (insieme di pallini) affonderebbe ad ogni onda per il volume di peso e il conseguente attrito nell’acqua che danno le torpille o i bulk; in presenza di corrente si deve lavorare invece con le torpille, i bulk o mix di torpille e pallini, dobbiamo solo tenere presente che dobbiamo avvicinare le torpille ecc.. al terminale in maniera direttamente proporzionale alla corrente. Queste sono le tre tipologie base ed adesso dovete solo adeguarle ai luoghi di pesca.
Per i terminali da adottare la scelta è data soprattutto dall’esca utilizzata, i terminali più conosciuti sono i bilancini o il terminale monoamo; solitamente il bilancino si usa per esche da innescare a “pezzi”(gambero, cozza tagliata, pastoncino, “allunga”…) la lunghezza dei due braccioli varia a seconda delle condizioni meteo/marine solitamente le misure sono rispettivamente da max 100/80 cm a min 20/15 cm nella misura dallo 0,08 allo 0,22 (situazione estrema); il bracciolo singolo è più adatto ad esche vive (bigattini, gambero vivo, coreano…) o in alcune situazioni dove vi è la presenza di pesci di taglia e il bisogno di innescare esche voluminose (es. Orate, Saraghi…), la sua lunghezza può variare sia per le condizioni marine sia per l’esca da un max di 200 cm a un min di 50 cm, nelle misure comprese tra lo 0,09 e lo 0,20 (situazione estrema).
Il filo da imbobinare sarà dallo 0,12 in su, del tipo non affondante, poco elastico, con un buon carico di rottura e che tenga al nodo.
Una volta concluse le sopra elencate, potremo finalmente incominciare a pescare, la prima cosa basilare è la “misurazione del fondo”, tale operazione è molto delicata e richiede alcune conoscenze specifiche come le abitudini dei pesci e il luogo di pesca (approccio visivo tipo di fondale ecc…), solo il connubio di questi dati potrà dare i risultati occorrenti. Passiamo all’operazione vera e propria, innanzi tutto esistono attrezzi specifici chiamati sonde (o sondine) di varie grammature, si applicano sugli ami ed essendo di peso molto superiore rispetto alla taratura del galleggiante, lo fanno affondare, è proprio questo affondamento che ci farà capire a che profondità stiamo pescando o a che profondità vorremmo pescare. Eseguire diverse volte la misurazione nello specchio d’acqua del luogo di pesca consentirà di conoscere le caratteristiche del fondo non visibili (buche, scogli, alghe…), inoltre è importante ripetere l’operazione diverse volte durante l’arco della pescata.
Vi sono inoltre altre operazioni, come la costante pasturazione che consentirà di ottenere buoni carnieri, potrete iniziare a pasturare appena arrivati nel luogo di pesca, e un strategia che contraddistingue questa tipo di pesca “la trattenuta”, si realizza spostando il galleggiante di un paio di centimetri e rilasciandolo (con presenza di corrente basta solo tenere ferma la canna), ciò movimenterà l’innesco simulando la ricaduta dell’esca sul fondo.
Passiamo adesso ad analizzare le canne da usare, prevale da tempo sul mercato la scelta degli anelli a ponte medio lungo e lungo, per non incombere nella problematica del filo che si “incolla” alla canna per l’umidità ecc…, si contraddistinguono per gli elementi lunghi, l’azione è di punta e semi-parabolica (classica azione da bolognese) ovviamente vi sono anche le diciture strong, medio dura ecc… che si rifaranno sempre alle due azioni sopra indicate. La scelta della potenza di lancio è ampia infatti vi sono da 1 ai 35 gr. La placca porta mulinello deve essere posizionata o meglio deve essere montata prendendo la seguente misura: appoggiando il gomito quasi sul tappo segneremo la misura proprio al centro della mano, lì va legata la placca, così facendo sfrutteremo tutta la lunghezza della canna; un escamotage, se si vuole insidiare pesci di taglia, è quello di lasciare 2 o 3 cm di distanza fra il gomito e il tappo, in questo modo avremo più leva. Un ultimo consiglio è quello di comprare le canne nude e di montarle a vostro piacimento e sempre con materiali di ottima fattura, dato che i diametri dei fili sono sempre molto sottili. Per il mulinello acquistatene uno a spire incrociate e con un recupero veloce.
Vi consiglio di pescare sempre a cefali o muggini è un’ottima scuola, in ultimo vi do un consiglio: PESCATE, PESCATE, PESCATE…!!!
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